La tristezza di tutti i giorni

Genitori con figli tristi

Per la tristezza vale la regola generale per cui i genitori insegnano ai bambini a parlare, a riconoscere la realtà e ad agire nel mondo e i figli imparano, soprattutto, imitando i genitori. Un bambino triste sa di star male, ha bisogno che il genitore  gli dica cosa è quello che gli sta succedendo, ha bisogno che il genitore  lo veda e dia un nome a quel senso di vuoto che egli sente. Ma il nome non basta, ha bisogno di essere consolato, ha bisogno di un sostegno sicuro che gli faccia sentire che non è solo e che ha valore e che quello che gli succede si organizza, in un qualche modo, con pazienza. L’adulto che conta è tranquillo, è un rifugio sicuro e la tristezza si può sopportare. Se invece la tristezza viene ignorata o sminuita o negata, il bambino pensa   che quello che prova sia sbagliato, o, peggio, di non star provando quello che prova. Non è una buona regola per affrontare la vita. Un’emozione accettata e organizzata diventa parte della vita quotidiana e un buon modo per capire cosa succede dentro e fuori di noi. Si vede bene con i figli adolescenti. Le emozioni, come tutto resto in questo periodo della vita, sono sempre forti, eccessive, la confusione regna sovrana. Dare un nome alla tristezza significa far sapere all’adolescente che si riconosce la sua tristezza e la si nomina senza paura. Possono seguire le spiegazioni o le confidenze spesso contorte o reticenti del ragazzo, e  quello che conta è che lui possa dire cosa succede a qualcuno che lo ascolta ed è sicuro, a qualcuno che non ha tutta la sua paura.  Vanno anche bene le sue non spiegazioni, quel pesante silenzio che gli adolescenti usano bene, perché  quello che vale è resistere, stare accanto a lui, non scappare e neanche negare. Si può essere tristi senza sapere perché anche da adulti. Non si tratta di trovare soluzioni subito, si tratta di non scappare, poi si cercherà la soluzione. In consultorio a volte vengono genitori preoccupati di mostrare la loro tristezza ai figli e in questa casi vale la funzione pedagogica della consulenza, per cui si può insegnare anche al genitore che non è un male mostrare le emozioni. E’ chiaro che per poter stare dentro alla tristezza dei figli bisogna aver imparato a fare i conti con la propria.  La tristezza dei figli è un buon allenamento per ascoltare se stessi, concedendosi di non essere onnipotenti, di poter essere limitati, ricordando che questa emozione ci vuole dire qualcosa e soprattutto che non è una nemica. Non più di quanto lo siano queste sempre più corte giornate di autunno con profumi, colori, luce diversi da quelli dell’estate ma che non sono non sbagliati. Sono solo un’altra parte dell’anno.

Chiara Leone, Consulente famigliare presso il consultorio La Famiglia di Palazzo di  Assisi

Un po’ di petulante tristezza quotidiana.

Anche se non pare divertente parliamo di giorni tristi e della tristezza di tutti i giorni. Facciamo una distinzione: ci sono giorni tristi senza un perché chiaro: sappiamo che arrivano e che passano con una tristezza, senza ragione apparente, che riduce un po’ il colore di tutto quello che ci accade. Non possiamo farci nulla. Ci sono poi giorni in cui la tristezza ha una causa più definita: lo abbiamo visto in un altro articolo. Capita spesso, eppure non se ne parla volentieri, anche tra amici o in famiglia, come se fosse contagiosa o  segno di debolezza o un tema troppo noioso.Gli adolescenti non ne parlano perché è da sfigati oppure la ostentano come fosse un’arma che si usa ma di cui non si parla.  Molti adulti, invece, non sono tristi: sono stanchi, sono sotto pressione, sono preoccupati oppure realisti, cioè senza illusioni.

 Non basta giocare con le parole, l’emozione resta anche se non ce la riconosciamo. Guardandola con calma vediamo che spesso la tristezza  si lega all’idea di perdita, alla percezione di aver perso qualcosa di cui avevamo bisogno. A volte vengono in consultorio persone che stanno male ma non sanno subito dire che sono tristi. Quando lo scoprono inizia, da parte loro, la  ricerca, inizialmente timida, poi sempre più determinata del nome  di quello di cui, davvero, hanno bisogno. Ma anche quando i bisogni sono chiari può seguire l’idea pericolosa che non noi ma qualcun’altro se ne debba prendere cura, debba soddisfarli. Questa è una pretesa. La richiesta di qualcosa che ci serve è buona, legittima ma prevede di poter essere disattesa. La pretesa invece sta nell’assumere che la richiesta debba soddisfatta da qualcuno che deve prendersi cura del nostro bisogno, non è previsto il rifiuto. Peggio ancora è quando si pensa che qualcuno debba capire di cosa abbiamo bisogno senza dirglielo. Nei primi mesi di vita richiesta e pretesa sono identiche visto che un neonato è impotente, ma poi si le cose cambiano e inizia la fatica ma anche la capacità di prenderci cura dei nostri bisogni. Visto che nessun’ altro può, farlo al nostro posto abbiamo imparato a cercare e chiedere in più modi. E tutto questo come si collega alla tristezza? Si collega perché, come una compagna un po’ troppo petulante, ci invita ad ascoltarci. Ci ricorda che siamo limitati, ci ripete che abbiamo bisogno di qualcosa. E allora, per placarla un po’, iniziamo a darci da fare per soddisfare, come possiamo, quel bisogno. Insomma la scomoda compagna ci esorta a volerci bene.

Chiara Leone, Consulente famigliare presso il Consultorio La Famiglia di Palazzo di  Assisi

QUANDO LA TRISTEZZA PASSA IN CONSULTORIO

Quando la tristezza passa dal consultorio ha molte facce. Ha la faccia degli adolescenti tristi per gli insuccessi a scuola, per l’isolamento dagli amici, perché i genitori non li capiscono, per la confusione che regna ovunque nella loro vita. Oppure la tristezza è nell’espressione stanca delle persone che si sentono abbandonate, dal marito, dalla moglie, dai figli. Spesso non è un abbandono fisico, semplicemente non ci sono più il marito e i figli che si conoscevano. Oppure ci sono le persone tristi perché qualcuno se ne è davvero andato, non c’è più e quel vuoto non si sistema. Poi ci sono tutti quelli tristi perché non sono all’altezza: di essere buoni genitori o buoni lavoratori o buoni amici e così via.

E il consulente cosa fa? Ascolta. Questo significa che ha e mostra interesse verso quello che gli si dice, non si annoia o si spaventa di fronte a quello che sente, sta attento perché è certo che la persona che ha davanti ha valore. Ascoltare è diverso dall’interpretare e dal giudicare, non comporta dare consigli, non ha nulla a che vedere con il guidare o peggio ancora con il curare. Il consulente ascolta e sta con la persona che viene. Stare, in questo caso, significa accettare quello che porta, resistere al dolore condividerlo senza immedesimarsi. Forse qualcuno di noi ha incontrato persone del genere, in grado di essere così senza aver nessun titolo o essersi formati apposta, ma questa è una grande fortuna, non è la norma. E per capire quanto sia raro basta pensare quando è stata l’ultima volta che qualcuno davvero ci ha ascoltato senza interromperci, senza guardare il cellulare, senza replicare a sproposito o peggio replicare prima ancora che avessimo finito. Mai successo nelle ultime 5 ore?

Chi viene triste in consulenza rimette un po’ di ordine semplicemente sentendosi accolto da una presenza sincera, da uno che gli sta di fronte e lo accetta così come è, che lo considera importante e gli ricorda che ha valore anche se adesso non pare vero. Il consulente resiste insieme a chi è triste. Così si impara a dare un nome a un’emozione o si scopre che cambiando punto di vista tutta la realtà cambia. Il consulente e la tristezza, che ha portato in consultorio, sono un aiuto. In fondo la tristezza è come una compagna di scuola, una di quelle non tanto simpatiche, scontrose ma che alla fine passano un pezzo del compito e aiutano a trovare una soluzione. Certo non pare il caso di invitarla a cena ma si può smettere di evitarla con stizza, un po’ di attenzione e un saluto non glielo si può più negare.

Chiara Leone, Consulente famigliare presso il Consultorio La Famiglia di Palazzo di  Assisi

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